14/07/11

"Noi moriamo a Stalingrado" di Alfio Caruso


"Noi moriamo a Stalingrado" di Alfio Caruso è un libro che tratta, ovviamente, di quanto accadde a Stalingrado, ma concentrandosi in particolare su dei nostri connazionali che si ritrovarono proprio in quel terribile mattatoio.
Si trattava di settantasette italiani di due autoreparti, il 127° e il 248°, il cui compito iniziale era quello di portare rifornimenti e rinforzi alla Sesta Armata di Paulus per poi andarsene e rientrare nelle proprie divisioni.


Ma il destino ci mise mano e si trovarono nel posto sbagliato in un momento sbagliatissimo, infatti rimasero bloccati dall'avanzata dell'Armata Rossa verso la fine di novembre del 1942.
Questo libro si concentra proprio su di loro, dedicandosi principalmente a questi nostri soldati, i cui ricordi e frammenti di lettera spezzano la narrazione di quanto sta avvenendo a Stalingrado.
Verranno inghiottiti prima da una delle battaglie più dure della seconda guerra mondiale e poi finiranno in prigionia, e alla fine solamente due di loro riusciranno a fare ritorno in Italia.
La cosa che colpisce di più è che di questi nostri militari nessuno sapeva nulla, a partire dal regio esercito fino ad arrivare alle associazioni di reduci, nessuno era in grado di dire cosa fosse loro successo e non esiste nulla che li ricordi. Sono stati semplicemente dimenticati, come tantissimi altri uomini che hanno trovato la morte in Russia.
"Noi moriamo a Stalingrado" è diviso sostanzialmente in due parti, una dedicata alla fase della battaglia che si svolge a Stalingrado e l'altra invece illustra quanto successo dopo, all'interno dei gulag dove erano raccolti una moltitudine di prigionieri.
Le lettere che si trovano nelle pagine sono toccanti, parole semplici e che scaturivano dal cuore di quei soldati che si trovavano a migliaia di chilometri di distanza da casa.
Messaggi alla famiglia, che cercavano di tranquillizzare in ogni modo, evitando a tutti i costi di rivelare ai propri cari quanto in realtà stessero soffrendo in quel maledetto posto, in mancanza di cibo, al freddo e sotto il costante incedere del nemico.
Il pensiero vola sempre ai propri amici, genitori, ragazze e mogli che li attendono in Italia, cercando in ogni modo di rassicurarli sul proprio stato di salute, ed anzi preoccupandosi per loro e chiedendo loro aggiornamenti sulla semina, sulle feste di paese o sul loro stato di salute.
Anche la parte dedicata al loro periodo trascorso in prigionia è altrettanto dura, abbandonati a morire di freddo, di stenti, di tifo ed umiliati dai loro carcerieri.
Esperienze durissime anche solo da ricordare, come quella di Vincenzo Furini, unico sopravvissuto del 248°, parlò pochissimo di quanto accadde in Russia, dei mesi trascorsi nella sacca di Stalingrado e poi nei gulag. Un unico raccapricciante particolare lo raccontò a seguito dei capricci fatti da uno dei nipoti, che si rifiutava di mangiare una pietanza:

"Che lussi, beati voi che ve li potete permettere, che non avete mai patito la fame vera, quella che può portare alla follia o a masticare anche la corteccia degli alberi". Poi aggiunse che lui negli ultimi giorni di Stalingrado era stato costretto a mangiare carne umana: "Non avevamo più niente, era finito qualsiasi tipo di provvista. Uno dei compagni di rifugio era morto e gli altri, tutti insieme, decidemmo di voler sopravvivere ad ogni costo". [Pagina 229]


Uomini e ragazzi comuni, italiani come tanti, che si ritrovarono a vivere in un inferno, a patire sulla propria pelle indicibili sofferenze ed esperienze degradanti che ora, a più di sessant'anni da questi avvenimenti, vengono dimenticate con troppa facilità, fingendo che si tratti di un lontano passato che non ci riguarda più in alcun modo.
Si tratta di qualcosa che ciascuno di noi dovrebbe fissare a fuoco nella propria memoria perché il sacrificio patito da queste persone (e da tutti quelli travolti dalla follia della seconda guerra mondiale) non sia stato inutile.

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